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CAPIT-ELLI

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capitolo23

(“ehi Siri, ricordami ogni giorno che i gusti so (“ehi Siri, ricordami ogni giorno che i gusti son gusti. La Lettura ha dato 2 stelle su 5 alla copertina di Nina sull’argine, a me è sembrata magnifica”).

Nina sull’argine è la storia di Caterina, nominata – anche a seguito di un repulisti dell’ufficio da parte della Magistratura – ingegnere responsabile della costruzione di un sistema di protezione contro gli straripamenti di un fiume. Il contesto – e anche un certo occhieggiare della quarta di copertina – potrebbero indurre a ricercare nel romanzo una vena di confronto uomini da cantiere vs. donna capo che ho trovato solo in leggerissimo sottofondo; decisamente più presenti tutti gli aspetti psicologici di una giovane donna a confronto con la costruzione di un’opera ingegneristica e, più evidentemente ancora, di se stessa. Caterina combatte, molto evidentemente, più con i suoi limiti – veri o presunti tali – che con l’ambiente che la circonda, vive il contrasto fra un rapporto sentimentale in disfacimento e la nascita di nuovi rapporti umani. Poco a poco, in un racconto che intreccia narrato e ricordato, dialogo e soliloquio, si sorprende ad affrontare sfide che non immaginava e a superare la distanza fra ciò che è scritto nei manuali e ciò che costituisce realtà. Il racconto si fa anche para-fantastico, nel rapporto con un uomo (o un fantasma?) di cui non dirò altro ma che regala al volume un pizzico di realismo magico. 

Confesso però di essermi perso più volte: a volte negli esasperati tecnicismi del testo (un paio li ho approfonditi, ma poi ho gettato la spugna), in altri momenti nel tentativo di inquadrare la protagonista, che mi sfuggiva per forza e debolezza radicalmente alternate anche dopo poche pagine. Ma, in fondo, non è stata una lettura spiacevole, più simile – nella mia lettura – ad una passeggiata nella nebbia avvolgente dell’ambientazione che alla forza dirompente di un fiume che spacca gli argini. #libri #leggere #ninasullargine #veronicagalletta #instabook #instalibri #bookstagram #bookstagramitalia
Il 10 luglio del 2006 la Gazzetta titolava “Tutt Il 10 luglio del 2006 la Gazzetta titolava “Tutto vero”: titolo a nove colonne sopra la foto di Cannavaro (Kan-va-va-ro!) che sollevava la Coppa del Mondo conquistata a Berlino. Io zoppicavo per una microfrattura a un dito del piede di cui NON racconterò la genesi e pensavo che era davvero un bel titolo, memorabile come l’evento a cui faceva riferimento: ci guardavamo in faccia e ci domandavamo “ma è successo davvero?”. 

Veronica Raimo – che avevo apprezzato parecchio nella lettura di Miden, qualche estate fa – in Niente di vero gioca con le parole fin dal titolo, navigando fra il suo nome di battesimo e il concetto di verità. Non ho trovato “divertente” questo testo che sta a metà tra l’autobiografia ed il romanzo di formazione; l’ho trovato terribilmente vero, con quel sottile equilibrio fra momenti di pura tenerezza e altri di infinito e disincantato cinismo che mi hanno fatto persino un po’ male. 

Nel suo racconto di storia familiare ricca di ossessioni – sì, l’uso dell’alcool disinfettante mi ha fatto sorridere – e di piccole e grandi disfunzioni, Veronica Raimo ci guida in quello che una volta sarebbe stato definito memoir e che oggi assomiglia a una tendenza letteraria moderna che non mi conquista mai del tutto ma che mi lascia sempre qualcosa. Credo che il giudizio complessivo di Niente di vero, di cui ho letto recensioni terribili insieme a pensieri grati, dipenda essenzialmente dalla biografia e dall’esperienza del lettore. E non intendo in un semplice riconoscimento degli episodi vissuti, ma in una più ampia comprensione delle fragilità umane, delle loro peculiarità, degli effetti quasi indelebili che una parola può lasciare nelle nostre vite.

Fra quelli letti finora, e sono ben lontano dalla meta finale, è forse il più “streghiano” dei testi che ho affrontato. Vediamo se l’8 giugno mi finisce in cinquina. #letture #leggere #veronicaraimo #premiostrega #nientedivero #instabook #libri #bookstagram #libridaleggere
E qui devo un ringraziamento enorme a @giorgio.bal E qui devo un ringraziamento enorme a @giorgio.ballario che ha inserito tra le fonti utili alla scrittura del suo “Una donna di troppo” un testo che mi ha conquistato nelle ultime settimane, provocando anche qualche tensione familiare per la continuità quotidiana e l’estrema ricchezza di particolari con cui ripercorrevo, ad ogni occasione, l’incredibile biografia del Duca Degli Abruzzi che mi si andava via via svelando davanti agli occhi e al cuore. 

Essendo nato a Trieste e cresciuto a Monfalcone, fino a qualche settimana fa l’unico Duca che faceva parte del mio personalissimo Pantheon era il Duca d’Aosta, al secolo Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, Comandante della Terza Armata sul fronte isontino della prima guerra mondiale, che riposa in mezzo ai suoi soldati ai piedi del Sacrario, a esattamente 5,8 chilometri di bicicletta dalla mia cameretta. Emanuele Filiberto non avrà avuto grandi obiezioni e ha fatto spazio nel mio immaginario al fratello Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli Abruzzi, a cui Mirella Tenderini e Michael Shandrick hanno dedicato quest’opera meravigliosa. 

Ma chi fu il Duca degli Abruzzi? Bambino orfano di madre a tre anni, ragazzo formato in Accademia, uomo con una divorante passione per l’esplorazione e per la scoperta dell’ignoto, vissuta con gli occhi del lucido sognatore, di chi prepara scrupolosamente la riuscita dell’avventura senza smettere di lasciar vagare lo sguardo oltre le nuvole. Primo scalatore del Monte Saint Elias in Alaska (Alaska! e nel 1897), uomo più vicino a raggiungere il Polo Nord nei suoi anni; primo esploratore del Ruwenzori, 5101 metri di massiccio in pieno Congo (Congo! e nel 1906) la cui vetta è da allora nota come Cima Margherita, omaggio alla Regina, recordmen di altitudine raggiunta nel 1909 quando scalò il K2 senza raggiungerne la cima (ma ancora oggi la via più utilizzata per le scalate transita dallo Sperone degli Abruzzi). Imprese non solitarie, e non si tratta di un minus: il Duca possedeva anche la capacità di formare squadre perfette, e il volume è splendidamente illustrato da alcuni scatti di Vittorio Sella che di quelle imprese fu testimone e fotografo.
(Continua nei commenti)
Tralasciamo per un secondo il fatto che sono su In Tralasciamo per un secondo il fatto che sono su Instagram a scrivere la recensione di un saggio di un (grande) giornalista che racconta la sua avventura alla scoperta di Instagram: si configurerebbe infatti una sorta di meta-post carpiato che, per la clamorosa distanza di capacità di pensiero e di parola, finirebbe per provocare una frattura spazio-social-temporale da episodio di Black Mirror e di cui l'esito finale dovrebbe prevedere un collasso intergalattico nel - recentemente fotografato - buco nero della Via Lattea. 

Per garantire la salvezza planetaria, mi concentrerò quindi sulle sensazioni (poeti riccioluti avrebbero scritto Emozioni) che hanno accompagnato la mia lettura. 

La prima - e mi capita spesso anche quando Ceccarelli è ospite a Propaganda Live - è un misto di referenza e gratitudine: l'autore non si è limitato a un viaggio nella galassia social dominato dall'arguzia e dalla capacità di far sorridere che gli è certamente propria. C'è più pensiero in questo ritratto degli italiani nei social di molti saggi letti sull'argomento, e più comprensione del nostro immaginario che in celebrati romanzi contemporanei. Instagram è ritratto come un luogo perfetto per descrivere le nostre storiche caratteristiche di popolo: esalta l'individualismo prima della comunità (di cui alla lunga però si apprezzano i pregi), consente di volgere tragedia in commedia, ci mostra generosi quando serve, cinici quanto basta, disincantati quasi sempre. E per dimostrare che in fondo la novità sta nel mezzo e non nel contenuto, ogni video virale è associato a un ricordo del passato, ogni volgarità improvvisa a un momento-fasto della Prima Repubblica, e tutto funziona meravigliosamente bene.  

Molto italianamente ancora, il viaggio si compie con una compagnia familiare, e mi son quasi commosso nel leggere degli scambi con il figlio Giacomo (quasi un co-autore, vien da dire) e con i ricordi del padre, capace di trasmettere la curiosità verso l'umano a chi aveva un DNA prontissimo a recepirlo. 

Avevo iniziato a leggere pensando di farmi quattro risate, ho affrontato un testo avvolgente, mai banale e persino (lo dico) impegnativo in alcuni passaggi. Grazie, @real_ceccarelli
Nucleo familiare: Davide, neurochirurgo con tradiz Nucleo familiare: Davide, neurochirurgo con tradizionali problemi lavorativi e di vicinato che abbiamo in molti; Barbara, logopedista e vegana; Tommaso, adolescente neanche troppo problematico con una passione per l’astronomia. In comune, oltre alla casa e allo stato di famiglia, hanno – per motivi del tutto diversi fra di loro – una ripugnanza per ogni forma di violenza o, per essere ancor più precisi, più in generale per il conflitto.

A far saltare il tappo di una semi-tranquilla esistenza lucchese è un episodio: Davide assiste inerme e non visto a un principio di aggressione di cui è vittima la moglie accompagnata dal figlio, situazione risolta dalla comparsa sulla scena di Diego, che inchioda (quasi letteralmente) l’aggressore al muro con una sorta di violenza trattenuta ma evidentemente pronta ad esplodere fino alle estreme conseguenze.

Di Diego, sorta di monaco zen, Davide diventerà amico e quasi discepolo, configurando la classica situazione letterariamente potenzialmente disastrosa: già avvertivo ondate new age accompagnate da una sorta di Fight Club in salsa provinciale italiana con lontani echi dal Sabato di McEwan.

E invece il romanzo merita una pienissima sufficienza: la scrittura di Bacà – che non conoscevo e che adesso mi incuriosisce fortemente – è piena e matura, con un perfetto equilibrio fra termini colloquiali e ricercatezza lessicale. Anche il ritmo regge perfettamente, e la lettura – anche arricchita da citazioni, più o meno velate, tra le quali spicca appunto un riferimento a Palahniuk – si fa intrigante fino a un finale (in gran parte) inatteso. #libri #letture #premiostrega #fabiobacà #nova #candidatistrega #instabook #bookstagran #leggere #domenicadelphi #adelphi
Come capita a volte a noi lettori, dopo un paio di Come capita a volte a noi lettori, dopo un paio di testi emotivamente sfidanti avverto la necessità di una sorta di pausa, che in genere soddisfo con un thrilleraccio (che spesso si rivela di infima categoria) o con  un giallo (il più possibile) di spessore. Di Andy McNab ricordavo due libri – essenzialmente autobiografici – che mi avevano convinto (Pattuglia Bravo Two Zero e Azione immediata) e la delusione di aver scoperto che con la sua opera più narrativa (fra tutte l’infinita serie con protagonista Nick Stone) non avrei potuto colmare questi momenti di respiro fra letture più impegnative. Con Fuoco di copertura avevo proprio mollato il colpo, rimpiangendo il tecnothriller che amavo nella pagine di Clancy e cogliendone l’abissale distanza. 

Plotone Sette è, me ne sono assicurato prima di iniziarlo, la conclusione di una trilogia autobiografica che contiene anche i due volumi già citati; se ha un limite, è quello di richiamarli eccessivamente alla memoria, e noi appassionati della materia avremmo certamente preferito pagine del tutto originali piuttosto che un racconto che riporta alla memoria la missione del Golfo (e la conseguente prigionia) così come le azioni già descritte in Azione immediata. 

Ma c’è anche un aspetto positivo, che un po’ mi ha colpito: gran parte del volume è dedicato al “dopo il Reggimento”, raccontato sia per quanto riguarda la storia personale dell’autore che quella dei componenti del suo team; di più, Plotone Sette racconta evidenti episodi di stress post traumatico visto con gli occhi di chi indossa o ha indossato la divisa, e si è dovuto quindi confrontare con un ambiente e una cultura che non prevedevano – anzi, nascondevano – crolli psicologici da quelli che erano stati addestrati per assomigliare a super-uomini. La posizione che prende McNab è precisa, diretta e direi anche condivisibile, nella volontà di indirizzare culturalmente le Forze Speciali a prendersi carico di queste problematiche. 

Qualcuno – assetato di azione, dettagli militari, azione – lo avrà trovato un limite, a me è sembrata nettamente la parte migliore del volume. #andymcnab #plotonesette #libri #libro #militaria #sas
Se c’è un libro che ha un gran senso leggere ad Se c’è un libro che ha un gran senso leggere adesso, è Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic. Più ancora di La guerra non ha un volto di donna, che mi aveva commosso e incantato. Perché Ragazzi di zinco racconta la storia di un milione di giovani russi spediti in Afganistan dal 1979, e soprattutto dei quattordicimila che tornarono in patria solo per essere sepolti, nottetempo, perché non si poteva mostrare che il conflitto avviato per sostenere “la grande causa internazionale e socialista” non stava andando esattamente come la televisione e la Pravda raccontavano. 

Ripetendo quel metodo di lavoro che consente di ascoltare le voci dirette dei protagonisti, la Aleksievic ha attraversato per anni – ed erano anni pre-perestroika – l’Unione Societica per raccogliere le testimonianze di soldati, infermiere, medici, e soprattutto di madri di caduti. Riecheggiano, in questa opera pubblicata soltanto dopo la caduta del Muro, frasi e tematiche che abbiamo imparato tragicamente a conoscere negli ultimi mesi: è un eco che fa quasi impressione, dalla guerra avviata “perchè gli americani avevano pronto un piano d’invasione, li abbiamo anticipati di un’ora”, al ricordo continuo della Grande Guerra Patriottica del 45, a soldati inviati ad una esercitazione che scrivono a casa di essersi trovati al fronte senza saperlo. Ma più di tutto, prevale una umanità ferita e dolente che si è trovata di fronte a un bivio: morire buttando il sangue nella sabbia afgana o rientrare in patria al termine del servizio per essere definito “afgancy”, emarginato invece che accolto, traumatizzato da episodi orribili come solo la guerra può essere e su cui la Aleksievic non risparmia nulla. 

E’ chiaro, chiarissimo, cristallino che in Ucraina ci siano uno stato aggressore e una comunità aggredita, e non c’è dubbio su dove possa andare tutto il mio sostegno. Ma un giorno – o forse oggi stesso –  dovremo preoccuparci anche di chi la guerra l’ha comunque subita, con la divisa di un colore sbagliato addosso e una consonante divenuta simbolo di orrore sul petto. #ragazzidizinco #aleksievič #instabook #instalibro #libri #afganistan #afghanistan #guerra @edizioni_eo
Il Gambia è il più piccolo dei paesi africani, c Il Gambia è il più piccolo dei paesi africani, completamente circondato dal Senegal salvo lì dove il fiume omonimo di tuffa nell’oceano: inevitabilmente, la letteratura gambiana non offre esattamente una vasta scelta di libri tradotti in lingua italiana e, per  il mio giro del mondo letterario, ho dovuto ripiegare sul “Gambia come ambientazione”. 

Lello Gurrado racconta la storia di Sulley, un giovane gambiano scomparso durante il viaggio verso l’Europa, e di suo padre, che ha deciso di inseguirne le tracce intraprendendo lo stesso percorso. Ad aiutare il padre di Sulley nel ripercorrerne le orme c’è un particolare che distingue il figlio da ogni altro migrante: una maglietta di Messi, capitata chissà come fino in Gambia, indossata con fierezza e amore da un giovane che confidava di trovare fortuna nel Vecchio Continente, magari anche attraverso le sue doti calcistiche. Ed ecco allora che quella casacca del Barcellona diventa una bussola attraverso cui provare a scoprire dove sia finito Sulley e se il suo viaggio si sia interrotto in una delle mille tragiche peripezie che attendono i migranti dall’Africa subsahariana. 

Io non ho una maglietta di Messi (però ne ho una alabardata di Della Rocca, omaggio di un’amica). Soprattutto, non so e non posso nemmeno lontanamente immaginare cosa possa voler dire intraprendere quel viaggio, mettendo in conto – fin dalla partenza – che potrebbe concludersi con la morte. E forse oggi ce ne siamo anche dimenticati un po’, concentrati – come è umano, eppure triste, che sia – in altre tragedie. Gurrado me lo ha ricordato, con un romanzo lieve, che qualcuno potrebbe persino definire ingenuo, che non si eleva alla tragicità di altri volumi sullo stesso tragico tema eppure rimane lì dentro, a ricordare. #libri #gambia #girodelmondoletterario #lellogurrado #lampalampa #instabook #instalibro
Ho iniziato la rincorsa al Premio Strega: ricordo Ho iniziato la rincorsa al Premio Strega: ricordo l’ebrezza del tifo e la soddisfazione per il “già letto” quando le pagine dei quotidiani si concentrano sul vincitore e vorrei riassaporare la sensazione. 

Per interesse storico e ipotetica contiguità con i miei gusti di lettore ho pensato di partire da Mordi e fuggi, romanzo di Alessandro Bertante che promette di raccontare la “storia delle Brigate Rosse”, come recita il sottotitolo. Naturalmente la forma è narrativa e non saggistica, con un protagonista io narrante e il tentativo di ricreare ambientazione storica e sociale degli anni Settanta. 

Mettiamola così: non farò il tifo per questo. 

Nonostante le premesse, ho trovato Mordi e fuggi deludente. Prima di tutto nella forma: dialoghi poco efficaci, una scrittura che sconta il tentativo di ricreare lessicalmente anni passati con un risultato che appare artificioso, in un insieme che appare tutto sommato quasi frettoloso nel divenire così come nella sua espressione.

C’è poi un problema di contenuto, che – come sempre accade quando si parla di letteratura – può essere dovuto alla mia sensibilità personale: il romanzo mi è parso fortemente assolutorio, quasi che l’esperienza della lotta armata fosse una inevitabile strada da intraprendere e non una precisa scelta politica e militare di cui non si faticava certo a intravedere la tragicità. Ogni azione delle BR è conseguenza di un torto subito, ogni momento di discussione interna sfiora il manicheismo fra chi non ha il coraggio di andare fino in fondo e chi ci crede davvero. Ho la fortuna di non aver vissuto quegli anni, ma immagino una infinita gamma di grigi fra il bianco e il nero delle due opposte posizioni, e in un romanzo che ambisce a raccontarne la storia avrei voluto vederne una rappresentazione. #premiostrega #libri #letture #instabook #bookstagram #librisulibri
Vedi cara Patricia, è difficile a spiegare, è di Vedi cara Patricia, è difficile a spiegare, è difficile parlare dei fantasmi della mente di un lettore. Vedi cara Patricia, tutto quel che posso dire è che un lettore cambia un po’ ogni giorno, diventa – pagina dopo pagina – differente.

Vedi cara Patricia, è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già.

Certe frasi sono un niente che non serve più sentire: e io, anni dopo essermi dedicato ferocemente a più o meno tutta la serie che vede protagonista la tua Kay Scarpetta, con Il libro dei morti mi son trovato a una distanza infinita da quello che amo leggere: ti direi che non capisci quando cerco in una sera
un mistero d’ atmosfera che è difficile afferrare, ma sarebbe solo un giro di parole per cercare di spiegare che non riesco più a reggere dialoghi insulsi, una trama piuttosto abbozzata, particolari orrorifici buttati lì per cercare di scioccare il lettore. Tu sei molto – hai venduta tantissimo – anche se non sei abbastanza e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi: il tempo è tiranno, e dedicarne anche solo un po’ a qualcosa che sai non ti lascerà niente mi è ormai difficile da sopportare. 

Io cerco ancora e così non spaventarti quando senti allontanarmi: avrai sempre schiere di lettori, ma io non vi appartengo più.

Vedi cara Patricia è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già. #libri #letture #patriciacornwell #illibrodeimorti #thriller #kayscarpetta #citazionigucciniane #instalibri #bookstagram
Il Gabon è stata una bella sfida per il mio giro Il Gabon è stata una bella sfida per il mio giro del mondo letterario (è ho già verificato che con il Gambia sarà peggio): la scelta, quasi obbligata, è stata di affidarsi alla scrittrice franco-gabonese Bessora, autrice dalle infinite provenienze familiari geografiche e per questo particolarmente attenta alle tematiche dell’immigrazione e della ricerca identitaria. 

Bessora dipinge in 53 centimetri un viaggio nella Francia contemporanea vista con lo sguardo di Zara, ragazza madre alle prese con la burocrazia francese nel tentativo di ottenere l’agognato PDS (permesso di soggiorno) che le schiuda la vita a un futuro di soddisfazione. Gli echi kafkiani sono inevitabili, ma mettendo a frutto la sua laurea in antropologia, Bessora sceglie anche la strada del ribaltamento di ruolo: siamo abituati a racconti di viaggio in cui il turista (o lo studioso) narrano i luoghi visitati con lo sguardo dell’occidentale stupito da una usanza o un modo di fare, ma siamo certamente meno pronti considerare l’anormalità del nostro mondo, in cui un pezzo di carta (o la successione di pezzi di carta che segnano la nostra vita, a partire dal CND Certificato di Nascita) può determinare possibilità o impedimenti nella vita di tutti i giorni. 

E’ da qui che nasce la satira (feroce, intelligente e capace di catturare) di 53 centimetri, misura chiara per comprendere l’altro grande tema di questo romanzo breve che non si limita al racconto di un’immigrazione: Zara è troppo nera per i bianchi (a cui sfugge anche per il suo essere colta e istruita) e troppo bianca per i neri, essendo dotato di natiche troppo piccole per i loro canoni estetici. 

E allora 53 centimetri non si limita a divertire (e fra giochi di parole e riferimenti storici o politici sorriderete parecchio), ma diventa un testo su cui riflettere per domandarsi chi siamo noi, quale storia personale e sociale ci portiamo dentro, e metterla gioiosamente in discussione. #libri #letture #girodelmondoletterario #gabon #bessora #53centimetri #romanzo #instabook #bookstagram
Ho già raccontato di come abbia casualmente incon Ho già raccontato di come abbia casualmente incontrato Westlake e di quanto mi avesse convinto il suo lavoro. Un piacere vissuto con la piccola sorpresa di non averlo incontrato prima, da amante del genere quale mi vanto di essere. Beh, ora che ho affrontato il primo romanzo della serie di Dortmunder confermo in pieno il piacere e comprendo un po’ di più la sorpresa: mettere le mani su uno di questi volumi non è affatto semplice e temo che vivrò qualche difficoltà anche sui successivi 13 (tredici!, oltre a qualche racconto), ma ci si penserà a tempo debito. 

E varrà la pena faticare un po’ perché gli storici del giallo attribuiscono a questa serie, che vanta anche qualche traduzione cinematografica, la nascita del filone poliziesco-umoristico. Gli ineffabili cinque (titolo originale The hot rock, in Italia noto anche come La pietra che scotta) traccia i contorni di una nuova letteratura gialla: dialoghi spassosissimi, protagonisti della banda davvero azzeccati, un’umanità da sottofondi che perde i contorni del noir ed esce alla luce del sole sotto la guida di Dortmunder, geniale nell’elaborazione di piani fantasiosi e imprevedibili che falliscono per un nonnulla e non prevedono mai lo spargimento di sangue. Gli altri personaggi del gruppo non sono da meno: a me ha fatto impazzire Stan Murch, uno in grado di guidare qualsiasi mezzo di trasporto (compreso un treno e un elicottero) soltanto affrontando il libretto di istruzioni e che si rilassa ascoltando dischi su cui è stato registrato il rumore del traffico in varie parti del mondo. Poesia pura. #letture #leggere #donaldwestlake #giallo #gialli #instabook #bookstagram #libridaleggere #libri
Una donna di troppo Seconda avventura del maggior Una donna di troppo

Seconda avventura del maggiore Morosini che affronto e devo ammettere che mi ha convinto ancor più del primo: trama efficace (forse un po’ “telefonata” una colpevolezza per i più avvezzi al genere), ottimo ritmo con una felice alternanza fra riflessione (anche filosofica) e colpi di scena, ambientazione storica e ambientale affascinante. In Una donna di troppo si percepisce perfettamente la ricerca storica accurata e anche la comparsa di personaggi storici famosi (o famigerati, se penso al Generale Graziani) regala un pizzico di interesse in più. 

Lo confesso, dopo un paio di letture particolarmente provanti da un punto di vista emotivo, avevo bisogno di un attimo di leggerezza, e il fascino dell’Africa e dei suoi misteri - anche quando vi si affaccia lo straniero occupante, in questo caso italiano - non manca di lasciare il segno, in particolare quando, ed è questo il caso, non si lascia spazio a rappresentazioni macchiettistiche o parodianti. 

Romanzo persino coraggioso, devo dire, in alcuni sprazzi di verità storica che anni orsono non sarebbe stato possibile pubblicare. 

(Nota di merito per aver riportato una vittoria alabarda nel romanzo. Ahimè, siamo proprio nella fiction storica)

#letture #leggere #instabook #bookstagram #unadonnaditroppo #giallo #libri #aoi @giorgio.ballario
Stavo per iniziare a leggere La crepa e la luce di Stavo per iniziare a leggere La crepa e la luce di Gemma Calabresi Milite quando MoglieRiccia mi ha chiesto se avessi già affrontato Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi. Ho scosso il capo quasi imbarazzato (ho amato e amo ogni pagina scritta da Calabresi, newsletter incluse) rendendomi conto che me ne era mancato il coraggio. Ho rimediato, con il cuore che si stracciava pagina dopo pagina e un senso di incomprensione che mi macchiava il respiro: come si può restare così profondamente umani e attaccati alla vita quando gli eventi ti hanno portato via tutto in tenerissima età? Come si fa a mantenere fermezza e lucidità quando chi ha ucciso tuo padre pontifica dalle pagine di un giornale, e non cedere ad una rabbia sorda ma mantenere gli occhi spalancati sulla vita?

Me lo sono domandato durante la lettura di ogni pagina di Spingendo la notte più in là, intuendo – ma adesso mi accorgo di quanto fosse palese – quale potesse essere una risposta. 

La crepa e la luce ha reso tutto più chiaro, e non vuole essere uno sciocco gioco di parole. Davvero, la Luce che emerge dalle pagine, dai ricordi, dall’esperienza di Gemma Calabresi Milite ha reso tutto evidente, ma comunque non meno doloroso. 

Io non so come si misuri la strada del perdono, prego di non doverlo mai scoprire se non per le piccole fatiche che sempre ci portiamo dentro. Credo però di poter lontanamente intuire da dove nasca: da una preghiera, da un abbraccio, da una presenza, dalla volontà di credere che davvero siamo stati fatti per essere felici.
Se entrate nella nostra camera da letto, di fronte Se entrate nella nostra camera da letto, di fronte a voi troverete riprodotta sul muro una frase di Chesterton. A sinistra, le piccole librerie (ricolme) dei libri non ancora letti. Nella mia, che è la prima in cui vi imbatterete, c’è sempre, sempre, sempre almeno uno Zweig. Tipo che adesso che mi son goduto Ventiquattro ore nella vita di una donna, comunque ad aspettarmi c’è Magellano. Ma per sicurezza vado a rifornirmi che non vorrei restare senza. 

(…) (…) (…)

Ok, son tornato. Dove eravamo? Ah, già, Zweig e il suo Ventiquattro ore nella vita di una donna. Allora. 

Zweig è così: prende un personaggio, lo rende umano e vivente come se fosse uno che incontri ogni mattina al bar, lo racconta nel suo divenire di essere umano, tratteggiando in poche righe una intera esistenza. Poi te lo piazza davanti, ti affida una lente di ingrandimento e vi lascia soli. 

Ma non è una lemnte di ingrandimento normale, e non serve per ispezionarne l’iride o un dettaglio del vestito. E’ una lente di ingrandimento che si chiama Scrittura, e tu ti sorprendi a penetrare nell’anima di un essere umano, nei suoi tormenti, nei suoi ricordi, nelle sue esperienze, tragiche o leggere che siano. E non importa dove tu sia, ciò che hai attorno uscirà dal tuo raggio visivo, tutto ciò che non sia inquadrato da quella Lente di Ingrandimento perderà, per il tempo della lettura, definizione e colore. 

Quando questo succede in un racconto di un centinaio scarso di pagine, siamo di fronte a un piccolo miracolo. Quello che non avviene nella storia narrata, lucida, appassionata, bellissima. E tragica, come la biografia di Zweig ci aiuta a ricordare. #letture #leggere #stefanzweig #libri #instabook #bookstagram @passiglieditori
Ok, poche balle, mi son tuffato su Comics & Scienc Ok, poche balle, mi son tuffato su Comics & Science Vol. 1 dopo essermi goduto su Robinson una pagina in anteprima del contributo di Zerocalcare: e se già il disegnatore più romano de Roma accende sempre il mio interesse, qui c’era l’aggravante di un racconto per immagini della sua esperienza al sincrotrone di Trieste che non avrei potuto perdermi per nulla al mondo, e dunque eccomi qui. 

Ovviamente non sono rimasto deluso: l’immagine degli elettroni pronti a essere sparati dal cannone mentre cantano De Gregori mi ha accompagnato per alcuni dei giorni seguenti, così come l’autoritratto dell’autore intento ad affrontare una Lubjanska (“il Godzilla dei cordonbleu”). 

Ma poi, questo povero simil-umanista che stai leggendo, appassionato di letteratura e scientificamente diplomato, ha messo da parte cinque anni scolastici di fallimenti matematici e fisici e ha provato a capirci qualcosa. Riuscendoci il giusto – cioè poco – ma portandosi a casa almeno due concetti fondamentali. 

Il primo è: lode al CNR, che ha azzeccato l’utilizzo di una forma di racconto letterario – tale è il fumetto – che aiuta a superare la tentazione di abbandonare dopo tre frasi non comprese in pieno, tiene viva l’attenzione del lettore e – persino! – insegna. 

Il secondo, e mi tocca ri-citare Zerocalcare, è che davvero “È come se io, nella vita, guardassi il mondo da una feritoia stretta. (…) Oh. Non è che in 24 ore lì ho visto molto di più, ma mi sono reso conto che quella fessura si può allargare. E che c’è chi dedica la vita a quello. A farla diventare almeno una portafinestra”. E credo che gli ultimi due anni qualcosina sull’importanza della ricerca e della comprensione di qualcosa in più ce l’abbiano davvero insegnata. 

Citazione finale obbligatoria per il contributo di Tuono Pettinato: pagine di purissima poesia sul tempo che mi resteranno a lungo nella memoria. #libri #fumetti #zerocalcare #scienza #cnr #instabook #bookstagram
Qualche tempo fa – cavolo, potrebbero essere ann Qualche tempo fa – cavolo, potrebbero essere anni, la pandemia ci ha fatto perdere punti di riferimento – ho scassato le scatole a MoglieRiccia fino a quando l’ho convinta a regalarmi, dietro assicurazione di prendermene gran cura, una di quelle mini-serre casalinghe con luce alogena e pratico spazio per i vasetti. Che poi, prendersene cura non è una gran cosa, perché una volta “piantati” i semini di quel che vuoi provare a coltivare, basta assicurarsi che ci sia dell’acqua sul fondo ed una sorta di sirena bitonale ti ricorda, in genere alle due di notte, quando sta terminando. 

Non ho mai avuto grande passione per la coltivazione e l’unica esperienza in materia era stato il tentativo di piantare i pali per i pomodori sotto lo sguardo interdetto e non particolarmente amichevole della Nonna, che avrebbe probabilmente preferito come sposo della nipote un muscoloso salopettista dell’Arkansas, ma l’idea di dare vita a un minigiardino in soggiorno – non so perché – mi affascinava enormemente. 

La mini-serra è ancora lì, adesso ci sta crescendo del basilico, e W o il ricordo d’infanzia di Perec mi ci ha fatto pensare. Perché quando le piantine di aromi son cresciute, e sollevi il vasetto, ti accorgi che hanno le radici, sì, e che non poggiano su niente (ovvio, sotto ce’è l’acqua, mica la terra). E Perec in queste struggenti e complicatissime 230erotti pagine ti racconta quella cosa lì: una infanzia abbattuta, una madre ad Auschwitz, un padre morto in un ospedale da campo, e una serie inevitabile di frammenti di memoria raccolti dall’autore alla “Vita istruzioni per l’uso” – per far capire lo stile – ma inframmezzati di non-ricordo-bene, di smentite dopo poche pagine, di conferme fotografiche mancate. Una biografia che manca, lucidamente, di una base forte, ed in mancanza di questa non ci si può che rifugiare nella fantasia, cosa che Perec fece benissimo fin da subito come dimostra la storia di W, isola immaginaria in cui lo sport e gli ideali olimpici hanno formato governo, giustizia, vita quotidiana. 
(Continua sotto)
Sono cresciuto sul Carso, inforcando la bicicletta Sono cresciuto sul Carso, inforcando la bicicletta e raggiungendo spazi in cui bastava scavare due centimetri di terra per trovare delle schegge di bomba: ci si portava una calamita per distinguerle dai sassi, e si tornava a casa con un sacchetto pieno (chissà dove son finite, poi). Una volta trovammo un bossolo, un’altra volta un grilletto.

Sono cresciuto a pochi chilometri da Redipuglia. Anche lì ci si andava in bici, la si lasciava appoggiata al muro del bar ristorante, si attraversava la strada e si poteva scegliere: un giro nelle trincee fingendo di respingere l’assalto di invisibili nemici dal cappello a punta, o salita sulle gradinate del Sacrario scorrendone i nomi, quando ancora “centomila caduti” era un numero che impressionava ma non coglievo nella sua enorme tragicità. 

Emilio Lussu, in questo libro meraviglioso censurato nell’Italia del Ventennio (e non si fatica a capire perché) ha mostrato ai suoi lettori e al mondo che cosa sia la guerra di trincea. Di più: ha mostrato che cosa sia la Guerra in generale, le sue infinite assurdità, le idiozie decisionali che provocano tragedia, tutto il corredo di devastante stupidità e orrore di cui ci siamo ricordati all’improvviso solo adesso che i suoi artigli lambiscono l’Europa Occidentale. 

Un anno sull’altipiano è una lettura infinitamente preziosa, persino difficile da sopportare in alcuni punti pur non indulgendo mai sul particolare macabro o disturbante: è un lungo e tortuoso percorso nell’animo umano, un viaggio nella storia dei nostri luoghi e della nostra memoria, un monito per il presente e il futuro. Senza temere il paragone con il più celebre Remarque, che si sa che le cose di casa nostra le guardiamo sempre con un po’ più di sospetto. #letture #libri #leggere #bookstagram #emiliolussu #primaguerramondiale #storia #unannosullaltipiano
Allora, usciamo dall’imbarazzo e diciamocelo sub Allora, usciamo dall’imbarazzo e diciamocelo subito: la scrittura di David Peace nei suoi libri ambientati nella Tokyo post capitolazione giapponese può sembrare delirante. E in parte, anche questo va ammesso, lo è. Provo una stima clamorosa per Marco Pensante e per la sua opera di traduzione, che deve essere stata una via di mezzo fra un viaggio all’inferno e una fatica ercoliana. Stima.

Probabilmente ancora di più che con Tokyo anno zero, primo romanzo della trilogia e probante prova di lettura anche per i più scafati, sorgerà la tentazione di lasciar perdere: si riducono (forse) di un po’ onomatopee e flussi di coscienza tradotti in frasi prive di punteggiatura che avevano contraddistinto quella lettura, ma sorge un filone stretto parente del paranormale che fa un po’ da cornice al romanzo. Al centro, un attentato-rapina (realmente accaduto) in una banca compiuto con un composto chimico e un approfondimento storico sullo sviluppo di armi batteriologiche negli anni Quaranta su sponda giapponese ed americana, una indagine poliziesca ed una più tangenziale alla spy sory, i faticosi racconti di una sopravvissuta e uno stile narrativo che mescola brani di lettere, pagine di diario, interventi giornalistici, racconti in prima e in terza persona, il tutto senza soluzione di continuità e in una sorta di puzzle di cui si fa fatica a ricostruire immagine di partenza.

Una città – e una nazione – ancora scioccata da una sconfitta storica e inaspettata e il confronto fra culture distanti anni luce fanno da sfondo alle pagine più faticose che leggerò quest’anno (ne sono piuttosto sicuro). Ma non ho dubbi sul fatto che sia valsa la pena affrontarle. #letture #leggere #instabook #bookstagram #davidpeace #tokio #tokyocittàoccupata
E così, adesso non devo a Francesca Mannocchi sol E così, adesso non devo a Francesca Mannocchi solo la meraviglia dei suoi magnifici reportage giornalistici, uno dei migliori motivi per comprare La Stampa in edicola mentre attorno fioriscono le news sui social. Adesso le devo anche la lettura di un libro clamoroso, che mi era sfuggito nonostante con la Aleksievic, Premio Nobel per la letteratura nel 2015, avessi già pianto per Preghiera per Chernobyl. La guerra non ha un volto di donna è la più coinvolgente, struggente, memorabile mia lettura di questo scorcio di 2022, già letterariamente intenso.

Un lavoro enorme, una ricerca quasi infinita, un viaggio affrontato con lo sguardo spalancato e il cuore aperto: spiegarlo è infinitamente limitativo, l’Autrice ha raccolto per anni le testimonianze dalla prima linea di donne che avevano combattuto al fronte con la divisa sovietica, in uno dei tanti ruoli che una nazione invasa era stata costretta ad attribuire loro. E’ chiaro che i parallelismi con quanto sta accadendo in Ucraina sono quasi immediati, e i luoghi stessi citati nel libro aiutano. Ma il pensiero che mi ha attraverso la mente a lettura terminata non è stato solo legato all’attualità. 

Ho pensato che alcune delle parole che mi porterò dietro dopo questa lettura sono declinate al femminile. Perché a commuovermi profondamente è stata, in primo luogo, la Verità: è un libro che ho affrontato a piccoli sorsi, perché alcune delle situazioni descritte mi hanno messo alla prova, proprio perché nulla è risparmiato al lettore. Verità. 

E poi la Bellezza: perché in questi racconti di donne dal fronte è spesso emersa la ricerca di un istante, di una vista, fosse anche un solo filo verde ancora intonso. Un segnale di Bellezza, nel suo senso più immaginifico e forte.

E, infine, la Speranza, che non era solo quella di un futuro vittorioso, di una liberazione della propria terra o di giorni felici. Era qualcosa di più ampio e profondo, come l’infermiera che si scopre contenta nel dividere un pezzo di pane con un nemico prigioniero, e capisce che è da lì che ripartirà. 

La guerra non ha un volto di donna è un libro terribile e bellissimo, pieno di Verità, Bellezza e Speranza. #letture #laguerranonhaunvoltodidonna
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