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Capitolo23

Alfonso d'Agostino

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capitolo23

E’ passato qualche anno da quando Alanis Morisse E’ passato qualche anno da quando Alanis Morissette cantava un elenco di momenti e situazioni ironici. Canticchio ancora “Ironic” di tanto in tanto (“It’s like ten thousand spoons when all you need is a knife / It’s meeting the man of my dreams, and then meeting his beautiful wife”) e ci stavo pensando dopo aver letto “Il terzo uomo” di Graham Greene, averlo apprezzato infinitamente, essermi convinto che alla voce “spy story” dell’enciclopedia mondiale dovrebbe starci la copertina di questo romanzo… e aver appreso che l’autore ne disse “Il terzo uomo è stato scritto per essere visto, non per essere letto.”

Ora, io non sono nessuno per smentire Graham Greene (per carità!) e non ho dubbio alcuno che la pellicola che ne fu tratta sia un piccolo capolavoro. Emerge chiaramente dalla nota finale che chiude un volume accompagnato anche da una introduzione di Ben Pastor (Sellerio, grazie!) e da una postfazione di Domenico Scarpa: è lo stesso Greene a raccontare come ha modificato scene, dialoghi e descrizioni nella trasposizione dal racconto lungo allo script del film, e sono pagine di estremo interesse per chiunque si domandi come funzionino linguaggio scritto e linguaggio visivo. Valgono da sole, assicuro, il prezzo del biglietto. 

Ma, dicevo, non per smentire Greene, “Il terzo uomo” è un opera letteraria al limite della perfezione di genere: dalla ambientazione – una straziante Vienna post bellica, divisa fra le quattro potenze vincitrici come Berlino, in cui le macerie sono diventate parte del paesaggio urbano come se fossero sempre state lì – ad una trama solidissima, giocata fra sentimenti ed equilibri politici, fra azioni personali e contesto storico infinitamente più rilevante di qualunque movimento singolo. Una trama a cui Greene ci avvinghia, tra protagonisti che sfiorano la macchietta senza cadere mai nel piatto stereotipo e colpi di scena, con punti di vista che variano continuamente (persino la voce narrante!) senza che questo generi la minima confusione nel lettore o inceppi neppure per un secondo la forza ritmica del racconto. 

Un paio d’ore di purissimo godimento letterario #grahamgreene #ilterzouomo #libriconsigliati #spy #letture @sellerioeditore
Grenada era (ed è) per me l’isola dell’operaz Grenada era (ed è) per me l’isola dell’operazione militare statunitense e reaganiana del 1983: per chi non ne avesse memoria, tradizionale tentativo – si deve dire: riuscito – di esportare la democrazia a seguito di colpo di stato filo marxista un po’ troppo vicino alle coste a stelle e strisce e, soprattutto, lodevole ironia nel sostenere che in fondo gli USA intendessero semplicemente supportare l’azione militare di una forza multinazionale composta da paesi del bacino caraibico (Giamaica: 150 uomini, Barbardos: 50 uomini, altri paesi: 300 uomini) inviando 7.000 marines accompagnati da navi da guerra e aviazione.

Ne fecero un film (credo pessimo) con Clint Eastwood che girò per un po’ in VHS a casa nostra e a cui pensai subito una volto resomi conto che trovare un autore di Grenada per il mio giro del mondo letterario sarebbe stata impresa impossibile. Una sceneggiatura non era disponibile quindi ho virato sull’unica scelta possibile, ed eccomi a spiegare del tempo perso con Caraibi di James A. Michener. 

La struttura narrativa non è neppure malaccio: una serie di sedici racconti che, in ordine cronologico, conducono il lettore nella storia caraibica fino ai giorni nostri, tra finzioni e personaggi storici realmente esistiti, tra i quali spiccano Cristoforo Colombo, Drake, Nelson, Toussaint Louverture. Il viaggio geografico diventa così viaggio nel tempo, con alcune problematiche al limite dell’insopportabile: trame dei racconti che nella maggior parte dei casi sfiorano la banalità più assoluta, dialoghi al limite della più becera serie tv anni 90 e – soprattutto – una serie di personaggi che rispondono all’urlo “stereotipo!” rimbalzandolo come un continuo eco (stereotipo – stereotipo – stereotipo…). Appena appena più leggibili gli ultimi e più “contemporanei” racconti – quello ambientato nella Haiti di quasi cinquanta anni fa è il migliore della lista – ma davvero non basta a raggiungere la sufficienza.

Mi consolo pensando che ogni viaggio ha tappe entusiasmanti ed altre dimenticabili: confidiamo nel Guatemala, prossimo passaggio del giro! #girodelmondoletterario #grenada #caraibi #michener #libri #letture #leggere #storiadeicaraibi #caribean
Quando ero piccolo, si giocava a calcio ai giardin Quando ero piccolo, si giocava a calcio ai giardinetti sotto casa. Da una parte, una struttura di ferro che avrebbe dovuto sostenere un’altalena simulava perfettamente una porta; dall’altra, due alberi miracolosamente distanziati in modo corretto rappresentavano l’altra porta, e pazienza se non c’era la traversa, si andava ad occhio. Su un lato, una maledetta siepe di una pianta che non saprei identificare: fruttini rossi o arancioni tondi, foglie verdi, un mare di spine. 

Inutile dirlo: ogni volta che il SuperTele (o, quando andava di lusso, il Tango) ci finiva dentro, ne usciva bucato. E allora si cercava disperatamente il buchino e lo si tappava pestandoci dentro una spina per impedire l’uscita dell’aria (geniale contrappasso fra causa e soluzione, lo realizzo oggi). Per tre o quattro giorni, il pallone si sgonfiava lentamente, impercettibilmente, direi stancamente. 

“La valle oscura” si sgonfia pagina dopo pagina. Promette il racconto della vita di una giovane appassionata laureata in materie umanistiche che lascia un soffocante impiego senza prospettiva in una casa editrice e si fionda nel mondo delle supernova digitali, che raccolgono finanziamenti e promettono rivoluzioni, e poi spesso scoppiano come palloncini. Big data, front end e back end, ambienti tossici, sessismo, AD venticinquenni inquieti, frutta secca gratis in sala riunioni, mail notturne. 

“La valle oscura” sarebbe un grande reportage per Internazionale, se non fosse lungo più di 300 pagine, in cui a poco a poco senti di scivolare in una ripetizione continua, in dinamiche sempre identiche, e la protagonista comincia a starti anche un po’ sui maroni. Sembra rifiutare la realtà eppure la abita, sembra schifare l’ambiente ma in fondo lo ricerca, sembra volerti commuovere ma ti inaridisce. Riesce - questo sì - a ritrarre un mondo a parte, spersonalizzante come pochi, dalle metriche di successo che non corrispondono mai alla felicità. 

Ai giardinetti, un giorno arrivò qualcuno con un pallone di spugna dura. Non si bucava, assorbiva le spine, non si calciava neppure male. A “La valle oscura” manca il pallone di spugna. #lavalleoscura #letture #libri #leggere #siliconvalley #startup
Poi dici che proseguo lentamente nella lista dei 1 Poi dici che proseguo lentamente nella lista dei 1001 libri da leggere. Già. Perchè ci sono libri di cui si è già detto tutto, racconti dagli abissi della storia umana che sono incommentabili per natura, giganti della memoria e della letteratura che ti fanno sentire piccolo come una pulce, e altrettanto intelligente.

E’ il motivo per cui nella lista sul mio sito mancano ancora i link ai commenti ai libri di Primo Levi, che pure ho letto e riletto più di una volta.

Se avessi immaginato la tempesta emotiva che avrebbe scatenato “Paesaggio dopo la battaglia”, che con i volumi di Primo Levi condivide l’ambientazione nella pagina più buia e più tragica della storia dell’uomo, forse non sarei qui davanti alla tastiera. E il senso di inadeguatezza permane, si gonfia a dismisura, ma due parole sento la necessità di scriverle, forse solo perché sono arrivato alla mia (bella) età senza aver mai sentito parlare di Borowski e della sua narrativa, e ho il timore di sapere perché.

Borowski, che si tolse la vita a 29 anni dopo aver vissuto l’esperienza dei campi, racconta la quotidianità dell’orrore con una schiettezza che fa male, perché entra nella psicologia di chi ha cercato di sopravvivere e nel farlo si è, a sua volta, degradato. Non c’è un modo più leggero di dirlo: Borowski accende una luce orribile sulle gerarchie fra detenuti, sulla necessità di procurarsi del cibo in qualsiasi modo, sul tentativo di nascondersi a discapito di un altro più sfortunato. Sostiene, chiaramente, che un aspetto forse poco raccontato dei campi è stato anche questo: rendere impossibile sopravvivere se non venendo a patti con la propria oscurità. 

E’ chiaro, DEVE essere chiaro, che tutto ciò aggiunge – e NON sottrae – responsabilità e orrore a chi organizzò una macchina industriale di sterminio: andare oltre la contabilità della tragedia e raccontare come il campo trasformasse l’anima e la morale dei detenuti è un elemento di ulteriore, enorme condanna. 

Leggere “Paesaggio dopo la battaglia” è tremendo, difficilissimo, clamorosamente educativo. #1001libri #paesaggiodopolabattaglia #tadeuszborowski #leggere #letture #libriconsigliati
Anni fa – e non voglio fare il conto per non dep Anni fa – e non voglio fare il conto per non deprimermi – un collega a cui avevo risolto un problema mi disse “Sei affidabile come l’amico che si ricorda di portare la carta igienica in campeggio”. Era la sua massima interpretazione di fiducia, il suo ritratto di una persona su cui puoi sempre contare, e la considero ancora una delle prime medaglie professionali che mi sia mai appuntato sul petto (e tuttora fra le più preziose). 

(MoglieRiccia in realtà direbbe che mi dimentico nove volte su dieci le chiavi di casa e che anche sugli appuntamenti familiari a brevissimo termine ho dei limiti evidenti, ma non ascoltatela: è l’invidia di chi non ha la Medaglia Della Carta Igienica In Campeggio, tutto lì).

Marco Malvaldi è uno scrittore affidabile (ma non gli regalerò la mia Medaglia della Carta Igienica eccetera): quando compri un suo romanzo, sai sempre che non rimarrai deluso. Vale da quando comprai il suo primo romanzo Sellerio – non era un autore così noto, ai tempi – e cominciai a spacciarlo agli amici consigliandone la lettura e profetizzando (non che ci volesse un mago delle arti oscure) un futuro superbrillante, e continua a valere ancora oggi, che di romanzi sul BarLume (e sul BarLumicino, scopriremo…) se ne contano quindici e nessuno di questi mi ha deluso. Come non mi hanno deluso saggi e romanzi stand-alone, a dirla proprio tutta. 

In “La morra cinese” che un gradevole salto di voce narrante fra Massimo e Alice, che nel frattempo hanno messo al mondo una creatura; c’è la creatura appena citata, che rende le notti dei due un bel po’ provanti tranne quando ha trascorso il pomeriggio con il quartetto di (bis)nonni; c’è uno studente ucciso nel palazzo comunale, una poesia di Leopardi inedita e una nuova amministrazione comunale che tende al braccio teso e rende le discussioni politiche al BarLume (ancora più) infuocate. 

C’è soprattutto la certezza che se hai voglia (o bisogno) di un momento di puro divertimento letterario e di qualche risata, Malvaldi c’è. #libri #gialli #libriconsigliati #lamorracinese #marcomalvaldi #barlume #barlumicino #librisulibri #leggere
Colonnello Hendrik Frederik Prinsloo. E’ un nome Colonnello Hendrik Frederik Prinsloo. E’ un nome che non dirà niente a nessuno, ma vi assicuro che nelle prossime settimane vi capiterà di ripensarci, anche se l’unica occasione in cui lo sentirete citare saranno queste mie parole. 

Prinsloo diresse per anni il campo di prigionia di Zonderwater, in Sudafrica. Un luogo attraverso cui transitarono dal 1941 al 1947 più di centomila (100.000!) prigionieri di guerra italiani. Un luogo non ospitale fin dal nome (“senza acqua”) e naturalmente nell’intenzione: la prigionia richiama regolamenti, viveri scarsi, filo spinato, privazione della libertà. E Zonderwater fu naturalmente anche questo. 

Ma la chiave del racconto di Carlo Annese, che ha acceso un riflettore vivido e indispensabile su una pagina poco nota della nostra storia, è proprio in quel “anche”.

Perché sotto la direzione del Colonnello Prinsloo il tasso di analfabetismo fra i soldati italiani ospitati nel campo passò dal 30% al 2%, grazie ai corsi di istruzione; perché la noia e l’inattività in prigionia sono pericolose, e allora a Zonderwater ci furono teatro (con un numero di compagnie in attività che farebbe invidia a qualunque attuale capoluogo di provincia), arte, musica, artigianato, musica. E sport, moltissimo sport. 

Ci furono dei veri campionati di calcio, con una dozzina di squadre iscritte e migliaia di spettatori sugli spalti. Furono piantati i semi per la scuola italiana di scherma, che vede i suoi ori olimpici affondare le sue radici in questa terra lontana. Fu organizzato un incontro di pugilato di portata internazionale, che finì – il Destino ci vede benissimo – per essere disputato proprio l’8 settembre del 1943, in un incrocio di storie personali e storia nazionale che mette i brividi. 

Carlo Annese racconta una storia di fatica, dolore e dignità, puntando lo sguardo su storie personali per comporre un quadro più ampio, e ci riesce perfettamente. E io ho pensato molto al Colonnello Prinsloo in questi giorni in cui immaginare di poter guardare avanti con speranza anche rinchiusi dietro un muro o un filo spinato pare impossibile, e in cui la fiducia verso il genere umano è piuttosto bassa #zonderwater #libriconsigliati #carloannese #libri
E’ tutto talmente delicato e tragico in questa s E’ tutto talmente delicato e tragico in questa storia orribile che ho la sensazione di dover battere sui tasti con più leggerezza, di trattenere il respiro ad ogni virgola, di cesellare le parole con una attenzione a cui normalmente non sentirei il dovere di cedere. Perchè è impossibile raccontare dell’ultimo libro di Giuseppe Genna senza parlare di Yara e del suo sorriso, di una provincia rimasta quattro anni con il fiato sospeso, di paesini piccoli-puntini-sulla-mappa che per biografia da qualche anno conosco un po’ di più.

Ma ci si deve provare, partendo dalla constatazione che – dopo un film (non fortunatissimo), inchieste giornalistiche, libri di taglio criminologico e qualche documentario true crime – mancava nel racconto di questa storia (che per molti motivi è Storia, con la S maiuscola) un taglio narrativo, e nessuno meglio di genna poteva provare a darne creazione. E’ il Genna di Dies Irae, di Reality, di Italia De Profundis: il Genna dell’autofiction, della spy story che si mescola con il thriller mantenendosi ancorato alla cronaca, che ti fa vedere oltre e poi riguardare il particolare, che ti trascina nell’abisso e poi lo illumina con una luce fioca ma decisiva, costituita da una scrittura che ha pochi eguali in Italia e che non sbaglia mai, mai.

“Yara” è un “romanzo documentario”, così lo descrive l’Autore. Un romanzo che descrive una tragedia nazionale, perché quella è la dimensione del delitto, il suo orizzonte in qualche modo aberrante perché supera, dimentica la vittima, la sua innocenza assoluta, per diventare reality, trionfo del “secondo me”, tribuna dell’opinione, rifugio nella scienza. Sti tutto in quel momento lì: quando Yara, la sua umanità brutalmente interrotta, viene sostituita nei pensieri e nelle cronache da Ignoto 1, dall’origine del DNA da ricostruire, dai frame di un video e dai passaggi di un camioncino davanti alla telecamere.

A me, che l’ho letto come si legge Genna, cioè provando disagio e commozione, “Yara” è sembrata una lunga, lucida, accorata, splendida lettera di scuse. #yara #giuseppegenna #truecrime #leggere #letture #instalibro #bookstagram #libriconsigliati #libridaleggere
Uscite editoriali a novembre 2023 #letture #libri Uscite editoriali a novembre 2023 #letture #libri #novembre #2023 #novità
Post muto @keller_editore #gattoattiralike #gattic Post muto @keller_editore #gattoattiralike #gatticheleggonolibri
Ce li hai presenti quei momenti in cui c’è un f Ce li hai presenti quei momenti in cui c’è un filo di oscurità incipiente, un pensiero malevolo, un momento di sottile tristezza, e allora prendi il telefono (o la macchina, o ti alzi dalla tua scrivania) e chiami (o vai a cercare, o vai a disturbare alla scrivania) quella persona che un pochino ti illumina? 

Che poi magari non è che che nasca un discorso profondo, una confidenza o un confronto di opinioni sulle cose della vita, no. Sono due frasi e qualche caz.zata, una mezza risata e un istante di pura leggerezza. 

I libri di Westlake per me son quella roba lì. Che poi magari fra due anni faticherò un po’ a ricordarmi la trama e mi domanderò perché ci sia un anello in copertina (non credo, la storia del ladro derubato di un anello dalla ipotetica vittima del furto vale il prezzo del biglietto) o mi chiederò di chi sia il volto dietro la pistola (non credo neppure questo, il cattivone della storia è profondamente antipatico e lascia memoria), ma andrebbe bene uguale: sono stati giorni in compagnia di una banda di criminali con una complicata moralità, una storia d’amore che dura da romanzi interi e una che sboccia, casinò e alberghi che nascondono segreti. 

Il tutto senza troppi pensieri, e va bene così. 

(con la sottile preoccupazione per l’assottigliarsi inesorabile dei Westlake tradotti, e la cosa inizia a preoccuparmi non poco. Ma per scacciare la preoccupazione ci vorrebbe un Westlake…) #peggiodicosì #westlake #donaldwestlake #gialli #letture #dortmunder #leggere #instalibri #instabook #bookstagram #librisulibri
Cose spiegate bene è una collana magnifica, nata Cose spiegate bene è una collana magnifica, nata dalla collaborazione fra Il Post e Iperborea: si tratta di monografie che possono ricordare un po’ The Passenger (con cui condividono casa editrice e cura maniacale), ma che non riguardano naturalmente un paese o un luogo geografico ma un argomento più generale, sviscerato attraverso contributi a loro volta autoconsistenti.

L’ultimo numero garantisce fin dalla copertina di raccontare come “sta cambiando tutto nei giornali di carta e non, salvo la loro importanza”, ed è uno dei pochi casi che io ricordi di promessa non solo mantenuta, ma ampiamente superata: lo sguardo – verrebbe da dire inevitabilmente – non si limita a sorvolare storia e prospettive del giornalismo nostrano, ma si spinge in giro per il mondo (memorabile il pezzo sul New York Times e quello sui tabloid britannici, ad esempio), cercando di intercettare tendenze e direttrici intraprese dalle aziende editoriali, spinte in particolare dai nuovi strumenti di comunicazione a ricercare non solo nuove fonti di ricavi ma una vera e propria nuova identità.

Pensavo, pochi minuti prima di mettermi alla tastiera, che in casa nostra convivono due esempi diametralmente opposti in questo senso: siamo infatti certamente iscritti alla associazione “Le famiglie bimbe de Il Post” – inevitabile l’abbonamento a sostegno di una delle più belle realtà editoriali italiane – con il suo contorno di podcast (e quante volte ho pensato che potrebbero rappresentare una nuova sezione di Capitolo23), newsletter e Cose spiegate bene. D’altra parte, in soggiorno campeggiano decine di copie della Settimana Enigmistica, realtà a cui “Voltiamo decisamente pagina” dedica ugualmente alcune pagine che gridano resistenza (certo, aiutati da una formula nata già perfetta nel 1932 e sostanzialmente inattaccabile dal web).

Modernità e tradizione, forse voltare pagina a volte vuol dire anche ricominciare dalla prima pagina, dal motivo per cui si pubblica un giornale o si avverte la necessità di raccontare una storia. #cosespiegatebene #voltiamopagina #voltiamodecisamentepagina #ilpost #iperborea #editoria #giornalismo #internet
Stazioncina minuscola della provincia triestina. I Stazioncina minuscola della provincia triestina. Il treno locale – forse non si chiamavano ancora neppure regionali – da Udine e Gorizia con direzione la più bella piazza del mondo è in ritardo e il capostazione lo annuncia attraverso i due-autoparlanti-due presenti in stazione. “Il treno 6261 proveniente da Udine e diretto a Trieste viaggia con un ritardo di…”. Sulla bacheca saremo una ventina, ma tutti sbuffiamo, qualcuno mezzoporcona, un paio mandano in mona l’universo a voce più alta. Dagli autoparlanti all’improvviso si sente “No xe colpa mia”.

Per me è un ricordo indelebile e magnifico, probabilmente perché sono tendenzialmente più portato ad assumermi la responsabilità di qualsiasi evento negativo sia accaduto sul globo terrestre dal giorno della mia venuta al mondo: il senso-di-colpa è sempre qui, mi fa un sacco di compagnia, e finisce per farmi domandare se non avrei potuto fare qualcosa per ……….. (riempire i puntini con una qualunque tragedia personale o universale dell’ultimo quarantennio). Quel “no xe colpa mia” mi ricorda che non deve necessariamente e semper essere così.

“Il passeggero”, romanzo di McCarthy edito in Italia poco prima della sua scomparsa (ma abbiamo accolto poche settimane fa “Stella maris”, che de “Il passeggero” dovrebbe essere un completamento), non mi ha avvinto, e “no xe colpa mia”. Ho sofferto l’ininfluenza della trama (le prime righe della quarta di copertina sembra indirizzarci quasi verso un thriller, non è così), i salti temporali che mi hanno fatto sorgere più volte dei dubbi su dove fossi finito, un senso di assoluto disorientamento che non mi ha accompagnato (come accadde con “La strada”) ma mi ha respinto fin da subito. La sensazione – nettissima – di avere tra le mani qualcosa di grande ma di non poterlo afferrare, perché le scintille di interesse e di profondità che improvvisamente riuscivo ad intuire nel buio venivano immediatamente spente da inserti onirici, dissertazioni scientifiche, brandelli manualogici sulle attività subacquee, complottismi.

Succede – e scrivo qualcosa di quasi sacrilego – quando l’Autore non si mette al servizio della storia, ma tenta l’operazione perfettamente opposta. No xe colpa mia.
Per dimensioni, “Zio Petros e la congettura di G Per dimensioni, “Zio Petros e la congettura di Goldbach” potrebbe apparire più simile a un racconto lungo, ma strutturalmente abbiamo certamente tra le mani un romanzo con tre prtagonisti principali: la matematica, un nipote in cerca di una strada e lo zio del titolo che ha perso occasioni e (forse) un pezzetto di sanità mentale inseguendo la soluzione di uno dei problemi storici degli studi aritmetici. 

Per me, che di matematica capisco il giusto pur senza avere quella ipersensibilità allergica che prende i contorni della discalculia tipica di MoglieRiccia, onestamente alcuni paragrafi sono davvero risultati ostici; malgrado questo, però, mi pare che “Zio Petros e la congettura di Goldbach” abbia qualcosa da dire anche a chi non risolve equazioni di terzo grado per diletto. 

E partirei proprio dalla Congettura che zio Petros affronta per tutta la vita senza (forse) uscirne vivo: mi ha colpito nella sua apparente semplicità (“ogni numero pari maggiore di 2 può essere scritto come somma di due numeri primi”), affermazione che chiunque abbia un minimissimo di competenza liceale può verificare facendo due calcoli a mente. Ecco, una affermazione semplice, apparentemente approcciabile, ma in-dimostrata (e forse indimostrabile) dal 1742, che mi ha fatto pensare a quelle piccole soluzioni quotidiane in cui sei circondato da gente che ti spiega che “è facile”, ma tu sai che – cazzarola – non lo è. Non lo è per te, forse non le è persino universalmente, e in fondo non importa, perché è il “per te” che conta. Ecco, appunto, “conta”, “contare”: sta a vedere che la matematica ha a che fare con quella mail da scrivere, quella telefonata da fare, quel viaggio da affrontare. 

E poi “zio Petros" ti racconta di una dicotomia quasi insanabile fra chi si pone obiettivi ragionevoli e chi sogna troppo in grande, ponendo traguardi che – con ogni probabilità – non avvicinerà neppure. E io non so chi abbia ragione, o se abbia senso cercare di intuirlo. Verrebbe da noleggiare un Cessna e farlo passare con uno striscione che recita “DIPENDE!”, ma in letteratura non va così, e finisci per solidarizzare con questo anziano signore che ha lasciato tutto per inseguire l'immortalità.
Ogni tanto mi fermo davanti agli scaffali dei “c Ogni tanto mi fermo davanti agli scaffali dei “comprati e ancora da leggere” che stanno in camera nostra, e li dispongo in un ordine che vorrebbe essere quello delle prossime letture. In alto a sinistra il primo da affrontare, e via via tutti gli altri. Tutto bellissimo, poi esce un Perez-Reverte e finisce dritto in prima posizione. Sempre così. 

“Linea di fuoco” è un romanzo enorme, totalizzante, bellissimo. E’ una perla letteraria rara, in cui fanno capolino il Perez-Reverte corrispondente di guerra (quello di Territorio Comanche, il primo testo che mi ha fatto innamorare della sua scrittura) e il Perez-Reverte romanziere-storico, che con “L’Italiano” o – in riferimento a conflitti più recenti – con “Il pittore di battaglie” mi ha trascinato avanti e indietro in vicende vicine o lontane, stringendomi il cuoricino tra le mani e stringendo forte. 

Interamente ambientato in dieci giorni di battaglia in piena guerra civile spagnola, “Linea di fuoco” adotta una linea narrativa originale: se è vero – e il Cielo sa quanto è vero – che le guerre fanno davvero schifo, una guerra civile è in qualche misura persino peggio. Fosse solo perché, come afferma uno dei protagonisti a inizio romanzo ascoltando lamenti di feriti dell’altra parte, “è il brutto di queste guerre (…) che senti il nemico chiamare la madre nella tua stessa lingua”. In questo contesto, e con una polifonia perfetta, Perez-Reverte decide di dare voce a uomini e donne di entrambi gli schieramenti, ognuno con i propri ideali, le proprie motivazioni, le proprie tragedie ad averne segnato storie e biografie personali e familiari. Vorresti si salvassero tutti, e non è ovviamente possibile. Poi arrivi all’epilogo, e un po’ te lo aspettavi ma lì c’è la conferma: i personaggi sono donne e uomini in carne e ossa, realmente vissuti, e allora via su Google Immagini a cercare una foto di una corrispondente di guerra o di una telegrafista, per vedere se l’immagine corrisponde alla tua fantasia di lettore e, soprattutto, per ri-conoscerla, farla nuovamente parte di te. 

Perché siamo bipedi fatti così, e siamo composti di incontri, emozioni, decisioni, esperienze. E “Linea di fuoco” è una esperienza da fare.
Mi hanno detto che anche a ottobre faremo un certo Mi hanno detto che anche a ottobre faremo un certo danno alla carta di credito... #libri #uscite #ottobre2023 #novità #zadiesmith #atwood #petermay #alessandrobarbero
Cercavo un libro giordano per il mio giro del mond Cercavo un libro giordano per il mio giro del mondo letterario e ho trovato un libro universale. 

All’Est del Mediterraneo racconta è un romanzo breve e tagliente come una scheggia, costruito su una alternanza di due voci: Ragiab e Anisa, fratello e sorella, lui imprigionato da anni per reati di opinione, malato e sul punto di crollare alle pressioni della polizia che vorrebbe una confessione, e lei che gli chiede costantemente di mollare, tornare a casa, abbandonare il campo di battaglia ideologico.

E’ una storia di umanità profonda, ambientato in un paese “a Est del Mediterraneo”, una formula che consentirebbe di fare il giro del mondo e tornare al punto di partenza: se è vero che la sensazione (anche climatica) e la biografia dell’autore suggeriscono chiaramente coordinate GPS mediorientali, è impossibile lasciarsi limitare nel pensiero e non pensare che una storia con le stesse, identiche caratteristiche sta probabilmente accadendo mentre scrivo nei dintorni di una prigione libica, nei primi freddi del confine orientale ucraino, a pochi chilometri da Pyongyang, in qualche caserma venezuelana o in un altro dei mille luoghi di dolore di questo disgraziato pianeta.

All’Est del Mediterraneo è una voce contro le ingiustizie, priva di retorica perché profondamente umanizzata: il protagonista si trova di fronte a un bivio che rende impossibile una scelta “giusta” per le conseguenze emotive, familiari, affettive che avrà ognuna delle due possibilità. La voce della sorella è invece – specie inizialmente – quella di chi cerca di sopravvivere comunque, accettando la situazione e cercando di creare nel nucleo familiare quella pace serena che politica e sociale non garantiscono. La scelta di Ragiab, le conseguenze del suo gesto, lo sviluppo della storia costitueranno un lento precipitare verso un finale che non avrebbe potuto essere diverso. 

Leggendo “All’Est del Mediterraneo” ho pensato molto a Giulio, come faccio ogni volta che mi capitano davanti agli occhi storie di profonda ingiustizia, vere o verosimili, e come succede ogni volta che mi guardo il polso destro. #giordania #girodelmondoletterario #allestdelmediterraneo #munif #leggere #instalibro #letture
Ed ecco spiegato plasticamente perché non abbando Ed ecco spiegato plasticamente perché non abbandono (quasi) mai una lettura. “Il testamento Donadieu” è il primo Simenon a non avermi avvinto fin dalla prima pagina e ammetto di aver trovato la prima metà del romanzo quasi indigesta: il racconto del disfacimento relazionale di una ricca famiglia di armatori a seguito della morte del capostipite e dell’inattesa lettura del suo testamento faceva riecheggiare in me letture certamente classiche ma poco incidenti, un Ottocento francese che non ho mai amato particolarmente e che poco ha lasciato nella mia memoria. 

È da metà libro in poi che ho cominciato ad avvertire quel brividino che regala il piacere della lettura: non si erano certamente evoluti i protagonisti - tutti piuttosto stereotipati, dal cinico avido pronto a tutto per il successo alla fragile donna preda - ma il tono complessivo del romanzo, e soprattutto il suo ritmo, hanno cambiato marcia. Sono emerse gradevoli sfumature noir, l’altolocata società parigina con i suoi non-detto ha aggiunto un pizzico di verve, la narrazione ha abbandonato una certa aria balzachiana e si è diretta rapidamente verso una moderna tragedia dei sentimenti. Ottimo e non del tutto prevedibile il finale, con una scena conclusiva che accompagna all’ultima pagina (e al saluto del lettore) davvero perfetta. 

Io con calma proseguo nella scoperta dei “romanzi duri” di Simenon, abbiamo capito che ne vale la pena. #georgessimenon #simenon #romanziduri #iltestamentodonadieu #leggere #letture #instalibro #libri #libriconsigliati
L’incipit di “Un buon soldato”, romanzo del L’incipit di “Un buon soldato”, romanzo del 1915 di Ford Maddox Ford Ford (non è una ripetizione) pescato direttamente dalla lista dei 1001 libri da leggere, è assolutamente fulminante: 

”Questa è la storia più triste che abbia mai sentito”.

Ecco, sempre premesso che i libri incontrano il gusto letterario di ogni lettore in modo diverso, e che il mio è sicuramente rivedibile, l’incipit è l’unica cosa che ho trovato davvero efficace nel romanzo. Non so se sia la storia più triste mai sentita, di certo è una delle più pallose. 

“Un buon soldato” racconta dell’amicizia di due coppie, ad una delle quali appartiene John Dowell, voce narrante della vicenda, e del loro peregrinare fra centri termali e città europee durato nove anni, fino alla morte della moglie del protagonista. Una morte che toglierà il velo ad una serie infinita di sotterfugi e meschinità accadute nel tempo, mostrando plasticamente che nulla è idillio e tutto è facciata, attraversata pure dalle peggiori crepe. 

Tralasciando la pochezza della trama, a rendermi personalmente invisa la lettura è stata in particolare la figura del protagonista. Se è vero che la storia umana è attraversata dal grandioso dilemma interpretativo riassumibile nel quesito “ma ci è o ci fa?”, qui la domanda è destinata a restare senza risposta. Perché se Dowell “ci è“, siamo in presenza di uno dei peggiori personaggi letterari mai immaginati (al netto della letteratura più “bassa”, si intende). Se invece”ci fa” peggio mi sento, perché la salvaguardia delle apparenze e del posto in società va benissimo – considerando l’anno di edizione in particolare – ma almeno mi si risparmi il pippone psicoanalitico che ne deriva. 

Ecco, “Un buon soldato” viene spesso descritto come l’iniziatore di un genere o come un romanzo boa, riferimento per gli anni successivi. Da italiano (e si, pure triestino), mi si faccia ricordare che in questa direzione abbiamo avuto in casa un maestro, i cui romanzi – non a caso – sono invecchiati decisamente meglio di “Un buon soldato”. #leggere #letture #ilbuonsoldato #ford #1001libri #1001libridaleggereprimadimorire #1915 #instalibro
Se non ho contato male, ho passato in terra colomb Se non ho contato male, ho passato in terra colombiana un totale di nove giorni. Non mi impedisce di considerarla un po’ seconda patria, di tifare Los Cafeteros quando scendono in campo in Copa America o ai mondiali e di riconoscere che ha a che fare con due personcine più che importanti nella mia biografia. La Colombia, insomma, detiene saldamente un pezzo del mio cuore. 

È uno dei motivi per cui mi sono tuffato su “La buona guerra” di Phil Klay, anche con un pizzico di incoscienza: potevo intuire dalla quarta di copertina che il tema dominante potesse essere il conflitto tra narcos, governo e guerriglia FARC (spesso con triangolazioni e semi-alleanze difficili da comprendere), ma non ero del tutto pronto alla portata emotiva del romanzo. 

Lo sguardo di Klay sugli anni più difficili dello splendido stato sudamericano si dipana attraverso diverse esistenze e voci narranti, tra le quali rimangono impresse quella di una reporter statunitense rientrata dall’Afghanistan che cerca a Bogotà e dintorni una nuova storia e quella di un ufficiale colombiano di alto grado, sospeso fra un senso del dovere machiavellico e desiderio di proteggere la famiglia. Ma il romanzo è complessivamente polifonico, racconta una serie infinite di storie, riconcilia con una narrativa di ampio respiro, capace di intrecciare in un arazzo credibile ed efficace i fili delle vite di essere umani piccoli, grandi, disperati e magnifici. 

“La buona guerra” è un romanzo duro senza scadere nello scioccante, vero senza finire nella cronaca e toccante senza appoggiarsi alla facile retorica. Spiega la sporcizia di ogni guerra e il desiderio di poterla definire “buona” da parte chi ne è protagonista, spettatore, vittima. #colombia #labuonaguerra #philklay #leggere #letture #romanzo #instalibro
Avviso ai naviganti di Annie Proulx è uno di quei Avviso ai naviganti di Annie Proulx è uno di quei libri che mi ha inseguito a lungo: ricordo la copertina di una edizione Baldini & Castoldi, edito prima che inaugurassimo il nuovo millennio se la memoria e la sintesi autobiografica scandita da librerie frequentate in alcuni periodi in particolare non mi inganna clamorosamente. Devo averne anche letto qualche pagina prima di pensare "ma sì, lo prendo un'altra volta" e lasciarlo lì. 

In tempi più recenti, "Avviso ai naviganti" mi ha guardato negli occhi dalla lista dei 1001 libri di leggere, e scorrendola finivo per ritornare a quella sensazione di tanti anni fa, a quella libreria di Buenos Aires che non c'è più, e mi prendeva una roba strana alla gola che mi faceva nuovamente soprassedere. 

Poi qualche mese fa mi è capitato di leggere un riferimento a questo romanzo, e ho percepito definitivamente che era giunto il momento. E non me ne sono pentito. 

"Avviso ai naviganti" e i suoi protagonisti sconclusionati, feriti, preoccupati dalla vita mi hanno lasciato da poco più di venti minuti, sfogliata l'ultima pagina. Attraversando la vita di Quoyle - giornalista che perde moglie (moooolto complicata) e lavoro e decide di trasferirsi sull’isola di Terranova, terra d'origine della sua famiglia, accompagnato dalle due piccole figlie e da una zia dal passato altrettanto complicato - ho pensato che in fondo a volte la letteratura è questione di temperatura. 

"Avviso ai naviganti" si sviluppa così, fra il freddo intenso di Terranova con gli iceberg che punteggiano il panorama e il caldo di una comunità che, fra tutte quelle difficoltà, cerca di mantenere una rete di comune supporto. O fra il gelo che il protagonista sente nelle vene per una relazione che sta prendendo una piega orrenda e il tepore che lo avvolge in un nuovo sentimento. O, ancora, fra l'inverno economico di un'isola piegata dalla globalizzazione dei mercati e da normative restrittive per la pesca e il racconto accanto a un fuoco di una terra che non c'è più, di un'epopea antica, di famiglie che hanno segnato la storia di un territorio. 

(continua nei commenti)
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Capitolo23

Alfonso d'Agostino

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