Torno ad Hannah Arendt come se fossi stato richiamato: da una parte, le letture degli ultimi anni (tra gli altri, “Dove inizia la notte” di Stefano Masini e “L’esecutore” di Ariel Magnus), la rilettura recentissima di Se questo è un uomo (di cui prima o poi troverò il coraggio di scrivere), la visita al Binario 21 in Centrale a Milano. Dall’altra, il processo per le stragi del Bataclan raccontato magistralmente sulle pagine di Robinson da Carrere, un autore che ogni tanto mi ha fatto sollevare l’arcata sopracciliare ma di cui, in questa occasione, mi sono bevuto ogni parola (e supplico vengano raccolte in un volume).
Non servo io per raccontare cosa sia stato La banalità del male per la coscienza europea: provo a immaginare di leggerlo con gli occhi del cinquantenne del 1963, senza grosse responsabilità dirette nell’organizzazione della macchina dello sterminio ma che ha vissuto quegli anni di annichilamento dell’anima personale, magari smettendo di frequentare un negozio (quando ancora non se ne erano infrante le vetrine) o abbassato lo sguardo di fronte a un conoscente, un collega, un ex compagno di scuola con la stella sul petto. E’ qui che ci porta la Arendt: ad ogni strato della popolazione, non a una sola elite di massacratori, ed è davvero difficile dirsi cosa avremmo fatto, o cosa non stiamo facendo in contesti meno scientificamente organizzati ma altrettanto tragici.
Penso ai lettori del New Yorker che lessero le corrispondenze di Hannah Arendt, convinti di doversi aspettare una cronaca del processo, una ricostruzione minuziosa delle malefatte di un unico misero uomo piazzato su un vetrino sotto la lente di un microscopio, e che invece di un microscopio si trovarono tra le mani un enorme e magnifico grandangolo che allargava lo sguardo e lo rendeva più cosciente e più vero.
SCHEDA LIBRO
Autore: Hannah Arendt
Titolo: La banalità del male
Editore: Feltrinelli
Collana: Saggi Universale Economica Feltrinelli
Anno di pubblicazione: 1963
Pagine: 352
ISBN: 978-8807892974
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Riassumendo
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8.5/10
Quarta di copertina
L’autrice assiste al dibattimento in aula e negli articoli scritti per il “New Yorker”, sviscera i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro il caso Eichmann. Il Male che Eichmann incarna appare nella Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori sono grigi burocrati.