A volte mi dimentico che anche le parole sono frutto di una invenzione. Nella Guida tascabile per maniaci di libri, a pagina 465, se ne elencano alcune che ereditiamo da Shakespeare, tra cui mi ha molto divertito leggere il termine gossip, per dire.
La parola nostalgia, che utilizziamo quasi quotidianamente – o almeno lo faccio io, che spesso sono di indole da “sguardo al passato” – sembra sia stata coniata da un medico svizzero alla fine del 1600 unendo i greci nóstos, “ritorno” e àlgos. “dolore, tristezza”. L’ho appreso domandandomi se Almarina, splendido romanzo di Valeria Parrella dalle emozioni fortissime e dalla scrittura limpida ed evocativa, potesse essere descritto dalla parola nostalgia.
Mi è sembrata più adatta della parola “mestizia” (qui la derivazione è latina, “maestitia”), che la Treccani definisce come “Sentimento di interna afflizione, affine alla tristezza, ma di questa più contenuto e persistente”. E ancora non ci siamo, perché – pur colpendo fino in fondo al miocardio – Almarina non può essere definito un libro triste.
E allora bisognerebbe inventare una parola: una che descriva contemporaneamente il dolore improvviso e ingiusto accompagnato da un amore purissimo e protettivo, una parola che racconti di un desiderio di giustizia e insieme che non può essere il nostro piccolo Io a stabilire ciò che è giusto (appunto) e ciò che è sbagliato. Una parola che descriva un orizzonte e che lo renda però raggiungibile, non come la linea che divide il cielo e il mare, che puoi prendere l’aeroplano più veloce dell’universo ma che non raggiungerai mai.
Bisognerebbe, insomma, essere scrittori, e io sono solo un modesto (orgoglioso) lettore, e mi limito a osservare che Almarina va letto per comprendere che – a volte – le parole non bastano.
SCHEDA LIBRO
Autore: Valeria Parrella
Titolo: Almarina
Editore: Einaudi (Supercoralli)
Pagine: 123
ISBN: 978-8806230616
Prezzo (amazon.it, 15% sconto): cartaceo con copertina rigida: € 14,45, ebook 9,99
Quarta di copertina
Esiste un’isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull’acqua, ed è lì che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant’anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l’altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d’amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi.