Ieri ho chiuso I nomi epiceni, ultimo romanzo di Amelie Nothomb, e l’ho appoggiato sul comodino dicendo “uhm”. Poi siccome MoglieRiccia si stava addormentando e non reagiva, ho esclamato a voce un po’ più alta “Mah”. E siccome MoglieRiccia non accennava a domandarmi di cosa mi stessi lamentando, ma avendo contemporaneamente percepito (con l’astuzia del MaritoConEsperienza) che se avessi insistito con i grugniti non sarebbe finita benissimo, ho preso il cellulofono e ho vergato due frasi carattere dopo carattere (ma piano-piano) con cui dare vita il giorno dopo a una recensione.
Il concetto – lo sviluppo perché con le sole due frasi scritte sarebbe risultato vagamente ermetico – è che ero abituato a godermi quella sensazione di gelo assoluto nelle ossa che più o meno tutti i romanzi della Nothomb mi hanno provocato. Tipo ieri sera a Milano, che tirava un vento a cui i meneghini non sono abituati e la gente si guardava stupita chiedendosi che roba fosse; o, meglio ancora, come un soffio di bora a Trieste, una di quelle raffiche gelate che si insinua sotto il giaccone e passa dalle maniche (non importa quanto strette le hai comprate) per incrociarsi più o meno sullo stomaco e farti “bbbbbrrrrrrrrrrrrr-senza-Brancamenta” proprio sull’ombelico.

Ecco, I nomi epiceni non è stato così. Mi verrebbe da dire tutt’altro (ho controllato sulla Treccani, si scrive così). Al posto della raffica di bora, ho avuto lo sfiato leggero e solo apparentemente gelido della bomboletta di aria compressa, quella che usi per pulire la tastiera e lascia anche una traccia umidiccia che mannaggia. un’imitazione, una scala minore, un lontano parente.
Poi certo, I nomi epiceni si fa leggere. E impari che per “nomi epiceni” si intendono quei nomi che possono essere sia maschili che femminili. Ma… Uhm. Bah. Sgrunf.
Riassumendo
Uhm. Bah. A mio parere, modestissimo e personale, un lontano parente delle splendide sferzate a cui mi aveva abituato la Nothomb.