Le citazioni, si sa, sono spesso un tentativo di ricondurre ad una sola frase un’idea, o una intera esistenza. Per descrivere il percorso fotografico di William Eugene Smith, però, è quasi obbligatorio aprire con una sua affermazione che dice moltissimo della sua capacità di superare i tecnicismi e raccontare, davvero, una storia:

A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?

Le immagini scattate da Eugene Smith (qualche esempio acquistabile qui) sono senza distinzioni straordinarie istantanee, e non sorprende che sia considerato uno dei più importanti reporter della storia della fotografia; nella sua collaborazione con “Life” e nelle pubblicazioni e mostre che lo videro protagonista sono immediatamente percepibili uno sguardo davvero diverso da quello di chiunque altro ed una straordinaria umanità. Che abbia ritratto gli sbarchi dei marines nel Pacifico o le conseguenze della intossicazione da mercurio, Smith era davvero in grado di trascinarti dentro un momento irripetibile, e farti sentire parte della Storia.

C’è un reportage per cui Smith è particolarmente celebre: nel 1971 si recò a Minamata, una prefettura giapponese in cui fotografò gli effetti sugli esseri umani dell’inquinamento da mercurio. In questo reportage è compresa l’immagine più famosa di Smith, considerata la “Pietà” della storia della fotografia: la trovate cliccando qui (ed è un’immagine forte, vi devo avvisare).

Non è l’immagine di cui vi voglio raccontare.

Negli anni ’40, ovviamente, Smith fu impegnato da reportage fotografici delle operazioni militari statunitensi; imbarcato su una portaerei, prese parte a più di 40 missioni di combattimento, inclusi diversi sbarchi di marines, e riuscì a scattare fotografie dell’invasione di Iwo Jima e dei bombardamenti di Tokio che entrarono nell’immaginario collettivo.

Il 23 maggio del 1945 (attenzione alla data: eravamo veramente agli sgoccioli del secondo conflitto mondiale), Smith fu gravemente ferito dall’esplosione di una granata, e colpito al volto e al collo.

Seguirono due anni dolorosissimi di convalescenza e riabilitazione. Due anni in cui Smith fu sottoposto a diverse operazioni chirurgiche ed in cui finì per interrogarsi sull’opportunità o meno di riprendere in mano una macchina fotografica. Quella che era stata una lontananza forzata a causa delle condizioni di salute si stava trasformando in un rifiuto mentale, impossibile da superare.

Poi, durante una passeggiata in campagna con i suoi due figli – in cui si ritrovò in mano la macchina fotografica quasi senza accorgersene, e caricò meccanicamente la prima pellicola disponibile – Smith scattò questa immagine, comunemente intitolata “A walk to Paradise Garden”: la prima dopo due anni di inattività totale.

William Eugene Smith
© The Heirs of William Eugene Smith

La seconda guerra mondiale era finita, pomposamente potremmo dire che l’umanità stava cercando di affacciarsi su una nuova epoca; la storia personale di Smith e la nascita di un nuovo mondo si intrecciano in una composizione perfetta e non studiata e accompagnata da una scrittura con la luce che conduce dalle tenebre alla luce. Una foto in cui la profondità del sentimento – come da aforisma in testa al post – è componente essenziale.

L’augurio di oggi – determinato fortemente dai giorni che ho vissuto – è proprio questo: avere sempre, nell’anno che è iniziato, lo sguardo spalancato sul mondo e stupito dalla Bellezza, ogni giorno.

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