C’è stato un periodo nella mia adolescenza in cui ogni occasione era buona per fare un salto a Redipuglia. Quei primi vagiti di libertà si concretizzavano con una bicicletta da inforcare, il lungo rettilineo che porta a Ronchi, un paio di salite da affrontare. E un luogo in cui mi sembrava di percepire una sorta di pace, mentre già mi rendevo conto che pronunciare quella parola in un luogo che ospita 100.000 (centomila!) salme di caduti della prima guerra mondiale assomigliava a una eresia. Eppure, non credo che neppure quelle giornate di pensieri ingenui fossero del tutto incoerenti con il luogo in cui preferivo fare due passi.

E’ semplice

A distanza di anni, mi rendo conto che – al netto di un’opera che ha letteralmente scavato il fianco di una montagna – c’è qualcosa di commuovente nella semplicità di questo luogo: le targhe dei monumenti lungo il Colle Sant’Elia ricordano delle rime quasi fanciullesche (“Seppero il nome mio gli umili fanti / quando balzammo insieme al grido: Avanti!”, “Che t’importa il mio nome? Grida al vento: Fante d’Italia! E dormirò contento), gli stessi cippi commemorativi sono realistiche riproduzioni e non ambiscono certo allo status di opere d’arte.

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Persino nelle trincee, con il loro dedalo di camminamenti coperti e spazi per il puntamento di cannoni e fucili, risuona una inevitabile semplicità: non era luogo adatto a inutili orpelli, è evidente. Ma quella parte del colle è rimasta così com’era, senza che si avvertisse la necessità di accentuarne i confini, la storia, la tragedia.

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A Redipuglia tutta la tragica e ambigua storia degli uomini ritorna a gorgogliare nel cuore e, al di là del tempo e dello spazio, si sente l’urlo e si vede il sangue di Stalingrado e di Canne, di Verdun e di Lepanto, di Dresda e di Hiroshima, di Mussa-Dag e di Gerusalemme spianata. (Nicolino Sarale, E la porta fu chiusa, Edizioni Paoline, 1974.)

E infine, onnipresente c’è quella parola, otto lettere e un significato – ancora una volta – semplice: io ci sono, ci sono stato e sempre ci sarò. Presente.

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